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NON C'E' FUMO SENZA FUOCO
(IL N'Y A PAS DE FUMEE SANS FEU)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 12 giugno 1973
 
di André Cayatte, con Annie Girardot, Mireille Darc, Michel Bouquet, Mathieu Carrère (Francia, 1972)
E' questo il miglior Cayatte da molti anni, certamente migliore del tanto strombazzato, a livello di rotocalco, MOURIR D'AIMER, il celebre caso di linciaggio morale della maestra francese innamorata del proprio allievo. Che poi il miglior Cayatte valga tanto quanto il peggior Visconti (cfr. LO STRANIERO della settimana scorsa) è un altro discorso, ma tanto vale dirlo subito. il regista ha ormai sessantacinque anni, e i limiti del suo cinema non si scoprono oggi. André Bazin, come sempre lucido e lungimirante, li aveva indicati già all'inizio della carriera di Cayatte: «Non si tratta soltanto di un cinema a tesi, ma di una impresa assai paradossale nella quale è il meccanismo del cinema che rifluisce verso lo spettatore. Un universo giuridico e meccanizzato, popolato di esseri automatizzati. Aspettiamo la rivolta dei robots». Una rivolta, oggi lo sappiamo, che non è mai avvenuta. Il meccanismo, del quale parla Bazin, è tanto più evidente in questa pellicola in quanto è proprio la meccanica (del potere politico) ad essere il soggetto vero del film. Non si tratta evidentemente di «suspense», perché sappiamo tutti che la vittima ha inviato il negativo della foto truccata al fratello, e che quindi la verità verrà fuori, togliendo l'innocente dai pasticci. La sola novità, nello svolgimento più che prevedibile della trama, è che i rapporti fra il medico e la moglie vengono ad essere distrutti dalla macchina del potere. Ed è anche la conclusione, una conclusione che va a tutto onore di Cayàtte, un tentativo di interiorizzare una denuncia altrimenti assai scontata. La violenza, da strumento materiale di dominazione, diviene strumento di pressione dapprima, di distruzione in seguito, morale. Cayatte dedica quindi questa sua fatica ad una -riflessione, che dovrebbe essere distaccata, sul meccanismo di quel processo. Il suo dovrebbe essere uno sguardo su un oggetto ben preciso, separato dal contesto emotivo del racconto.

L'ambiente nel quale questo si svolge è assai saggiamente composto, e gli attori ben diretti. Sono gli aspetti positivi dell'impresa. Ma il resto naufraga nelle tare di sempre. Tutto è scomposto, schematizzato all'eccesso. I rapporti fra i personaggi, le conclusioni sullo svolgersi degli avvenimenti, sono semplicizzati in un modo del tutto sconsolante. Si può stendere un velo su certe sequenze risibili, come quella del sogno della Girardot che sprofonda nelle sabbie mobili. Ma non sulla pachidermica mancanza di sottilità, sull'approssimazione che è fatale nell'arte di trattare le immagini. Cayatte è, al solito, generoso ed onesto. Ma la meccanica delle sue intenzioni, per dirla ancora con Bazin, è di un peso atroce.


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